Il Porto e le Peschiere

Il Porto e le Peschiere.   Tipologia degli insediamenti nel territorio e modi di produzione. 

Abbiamo visto come la città di Hipponion prima e quella di Valentia poi, fossero al centro di un ampio territorio, posto in posizione molto favorevole sia da un punto di vista topografico che da quello produttivo; si rammenti inoltre, la possibilità che la città ebbe di utilizzare e sfruttare il legname e la pece della Sila, divenuta in età romana ager publicus.

Il Porto.   Già da tempo la ricerca archeologica subacquea ha identificato i due moli del porto antico di Hipponion-Valentia. Esso è stato identificato nelle sue componenti strutturali, grazie ad una serie di ricerche svolte da geologi, archeologi, ed operatori subacquei. A conferma di quanto si era interpretato nella foto aeree, le indagini subacquee hanno individuato due antemurali, uno maggiore dell'altro, che costituivano le strutture di difesa e approdo dell'ampio bacino portuale. Una prima struttura, rinvenuta all'attuale foce del fiume Trainiti, è costituita da ciottoli e grandi massi squadrati, e si mantiene in elevato per un'altezza max. di m. 2.5 e con una batimetria che oscilla dai 4 fino ai 9 m.; la seconda struttura, che chiameremo antemurale minore, è invece ubicata in corrispondenza di Punta Buccarelli, costituita anch'essa da massi e ciottoli, purtruppo in pessimo stato di conservazione per la dispersione dei suoi elementi.   L'ipotesi odierna è che i due antemurali corrispondono al porto più recente rispetto a quello di minori dimensioni che era in uso in età greca. Il porto sfruttava un sistema fluviale-lagunare compreso tra le foci dei torrenti S. Anna e Trainiti ed era limitato verso l'interno da un vecchio sistema dunare sul quale, in età romana, erano state costruite alcune ville, di cui una che assume grande rilevanza per la comprensione degli scambi marittimi, è stata identificata ed in parte indagata nel sito del Castello di Bivona. L'esistenza di un porto a Hipponion-Valentia, per l'età greca e romana è documentato anche dalle fonti antiche (Strabone, Lucilio, Cicerone, Cesare, Appiano), mentre l'epistolario di Gregorio Magno ed il Liber Pontificalis testimoniano il protrarsi dell'attività portuale almeno fino all' VIII sec. a . C.; attività che continua nel XIII, per la menzione del porto di Bibona nel Portolano Il Compasso da Navigare, attribuito a quell'età; e si interrompe tra il XVII e il XIX secolo, con l'interrimento delle strutture, per ordine dei Pontefici romani, allo scopo di impedire il ricovero dei Barbari.   Si deve probabilmente al fatto che Valentia fosse munita proprio di un porto di grandi dimensioni, ubicato in posizione centrale rispetto alla rete marittima del sud del Mediterraneo, se durante le guerre civili tra Cesare e Pompeo, la città ospitò gran parte della flotta di Cesare.

 


E' all'archeologo francese F. Lenormant che fornisce nella metà dell'800 le prime descrizioni del porto, presso il vecchio ed abbandonato Castello di Bivona. Egli vide sotto l' acqua i suoi resti nel tragitto marino che lo condusse al Castello e notò i considerevoli resti dei moli esterni, assieme a dei grossi piloni quadrati di costruzione romana, disposti a distanze regolari.   La tradizione tramanda che l' arcata di mezzo, piu' larga delle altre, era costruita di marmo e portava scolpita la statua di Nettuno. Si tratta di un porto molto ampio, fondamentale sia per l'eta' greca che per quella romana perché diventa veicolo per il commercio, e determina il fiorire di vasti complessi insediativi che specializzano e differenziano la loro produttività anche in funzione dell'esportazione a breve e forse anche a più ampio raggio.

 

La ricostruzione della tipologia degli insediamenti in età greca risulta ancora frammentaria pur tuttavia è probabile che, nel periodo compreso tra il V ed il IV sec. a. C., il modello insediativo coincidesse soprattutto con piccoli complessi (phrouria ), posti su pianori pianeggianti con funzioni di controllo ma anche di sfruttamento agricolo e commerciale per la vicinanza dei luoghi di approdo. Fin dall'età ellenistica sembra documentata un'abbondante produzione di vino per la presenza di contenitori atti alla sua conservazione e trasporto. Traffici commerciali, effettuati per via marittima, sono testimoniati a Vibo da più parti, e con continuità cronologica. Per l'età arcaica, ad Hipponion è presente materiale ceramico d'importazione (corinzio, greco-orientale, attico ecc.). Per l'età più recente (IV sec. a. C.), sui suoi tipi monetali è riprodotta un'anfora da trasporto di tipo greco-italico che attesta l'importanza di quel contenitore per vino.

Già con la deduzione della colonia romana, nel territorio di Valentia si riscontra la presenza diffusa dell'insediamento in villa, tipico del mondo romano. Si tratta di complessi rurali ubicati su pianori, ad economia prevalentemente agricola, che più tardi, in età imperiale, evolvono anche in senso residenziale.   Il loro numero sembra aumentare tra il I ed il II sec. d. C.   A partire dal III sec. d. C. e soprattutto nel IV, si assiste ad un'inversione di tendenza, nel senso che le ville diminuiscono di numero, mentre quelle che rimangono in uso si ingrandiscono e specializzano la produzione.

Per molti di questi complessi è stata segnalata la presenza di strutture portuali (tra le altre, anche per la villa di Vibo Valentia Marina nei pressi del ex tracciato ferroviario) costruite, certamente, in funzione del collegamento con il porto di Valentia, ubicato nelle immediate vicinanze. Le attività agricole meglio documentate sono la coltura della vite e dell'ulivo, con la relativa produzione di vino e olio; ma ad esse spesso si associano la produzione ittica e quella boschiva. In alcuni casi è presente quella artigianale di ceramica di vario genere, ed è ipotizzabile la produzione locale di contenitori di tipo anforico, sia per l'età romana (soprattutto anfore di tipo Dressel 2/4) che per quella tardo antica (anfore tipo Keay LII).

Conferma la coltura e la produzione del vino, in questo territorio, l'insediamento rinvenuto in località Grancara di Pannaconi che ingloba una vasca per quel tipo di lavorazione, accanto ad un deposito di che, al momento, rappresenta l'unica attestazione di questo genere di impianti rinvenuti, in una villa romana, in questo territorio. Immediatamente limitrofa al complesso è stata individuata un'area coltivata a vigneto, testimoniata dallla presenza di buche quadrate per l'alloggiamento dei vitigni ad alberello. In base alle buche rimaste in sito, si è ricostruita la coltivazione a doppi filari con le piante sfalsate. L'impianto della villa, di recente restaurato e visitabile, si data tra il I e il II sec. d. Cr.

La produzione ceramica connessa ad una di queste ville è documentata, a Briatico dalla presenza di una grande fornace, adesso ubicata sulla spiaggia ed isolata, ma certamente relativa ad uno dei nuclei della monumentale villa, rinvenuta negli anni scorsi in quella località.   Il complesso è noto soprattutto per la presenza di un mosaico con scene di pesca effettuata da amorini pescatori che gettano le reti da piccole imbarcazioni. I tipi di insediamenti, le colture e le attività attestati per le varie età presuppongono la concentrazione delle proprietà nei latifundia, connessi a una forme di produzione schiavistica, com'è documentata anche nel resto dell'Italia romana .

Le peschiere.     Attestano la produzione ittica due insediamenti per la lavorazione del pesce, rinvenuti a Briatico nelle località Sant'Irene e La Rocchetta. Il primo, di gran lunga più monumentale e conservato del secondo, è realizzato su uno scoglio in antico noto con i nomi di La Galera o Praca o Vrace. Consta di un complesso di vasche per tenere in fresco il pescato, scavate sullo scoglio e di altre vasche per la salagionecostruite in muratura e pavimentate in cocciopesto, ubicate sull'attuale spiaggia.     Sullo scoglio, un complesso di canali coperti a volta o a cielo aperto assicurano il ricambio dell'acqua nelle vasche. Un porticciolo orientato verso il porto di Vibo assicurava il trasporto del pesce o della salsa di pesce (il garum) che veniva stivata in anfore appositamente prodotte. Al momento attuale questo tipo di strutture è l'unico studiato e descritto per la Calabria. Da sempre lo scoglio di S. Irene, così vicino alla spiaggia e agevolmente raggiungibile a nuoto, ha suscitato grande interesse e curiosità, con le sue cavità e i suoi anfratti, dove con violenza penetra e s' infrange l'onda.     Il paziente e faticoso lavoro degli schiavi aveva realizzato, a colpi di piccone, quattro vasche rettangolari e contigue tra di loro, dove per qualche tempo venivano allevati i tonni.

 


Sul fronte interno dello scoglio venne costruito un piccolo approdo che si sviluppa su tre lati e si apre in direzione del porto maggiore della città romana, rinvenuto non lontano in località Trainiti; sui bordi irregolari della banchina sono state ricavate dieci bitte tutte di diverse dimensioni, utili per l'attracco delle barche con le quali il pesce lavorato veniva commerciato. Altre bitte esterne, di gran lunga più grandi, servivano probabilmente alla chiusura notturna del porto, secondo l'uso romano tramandato dagli scrittori antichi.Prescrive Columella, nella sua opera “De re rustica”, che nelle peschiere nulla doveva essere tralasciato per creare le migliori condizioni di vita ai pesci; all'interno delle vasche, oltre a disporre sul fondo scogli coperti di alghe, venivano creati veri e propri anfratti dove i pesci potevano vivere secondo le loro abitudini; per proteggerli dal sole spesso venivano realizzati ambienti coperti dove essi si rifugiavano in cerca d'ombra.     Molto importante nelle peschiere era il ricambio dell'acqua nelle vasche, e a questo scopo, in quella di S. Irene esse comunicano col mare mediante quattro canali, di cui quelli maggiori sono passanti e coperti a volta, mentre i minori comunicano col mare solo su un lato. A questo proposito Cicerone riteneva necessaria la canalizzazione nelle vasche, di acqua dolce, allo scopo di determinare la presenza di acqua salmastra così gradita ai pesci.     Ingegnoso e nello stesso tempo, molto articolato era il sistema usato per bloccare i canali, in modo da impedire la fuga del pescato e nello stesso tempo assicurare il ricambio dell'acqua. A S. Irene questo era costituito da tre cataratte poste ad una certa distanza tra loro: a quella cieca, che bloccava il canale dall'alto, ne corrispondevano altre due che lo bloccavano dal basso, questa volta mediante una grata che lasciava passare l'acqua e non i pesci.     Proteggeva lo scoglio sul suo lato nord, esposto ai venti di tramontana e maestrale, una piattaforma con funzione di frangiflutto, realizzata a più quote e rinforzata con un'opera cementizia che terminava con due corpi aggettanti.     Faceva parte integrante della peschiera di S. Irene, anche un altro complesso di vasche (cetariae) realizzato sulla spiaggetta di ciottoli, che sorge di fronte allo scoglio, e ormai erosa dal mare. Sono strutture ormai in cattivo stato di conservazione, caratterizzate dalla presenza di tipici angoli arrotondati per facilitarne la pulizia, intonacati come le pareti; il pavimento era realizzato mediante uno spesso strato di cocciopesto. Queste vasche erano adibite alla conservazione tramite la salagione del pesce e alla preparazione della salsa delle interiora, il garum, molto apprezzata presso i Romani che ne andavano ghiotti.     Il collegamento tra le cetariae a terra e le vasche sullo scoglio avveniva, forse, attraverso un piccolo ponte ligneo, che ovviamente non si è conservato, considerato che il litorale su cui erano ubicate le vasche per la salagione, in età romana, doveva essere proteso di molto rispetto all'attuale e quindi veniva a trovarsi di gran lunga più vicino allo scoglio, di quanto non lo sia adesso.     E' probabile che il pesce che veniva lavorato in entrambi gli stabilimenti fosse il tonno, anche se in un settore della peschiera di S. Irene sono state individuate delle “strutture” forse adibite all'allevamento di altre specie, tra cui lamellibranchi e gasteropodi.     Del resto, che nel golfo di Hipponion fosse praticata in modo industriale la pesca del tonno, lo attestano sia le fonti antiche, Atheneo (Deipnosophistae, VII, 302) ed Aeliano (De Natura Animalium, XV, 3) che esaltano la qualità del pescato hipponiate, dichiarandolo il migliore del Mediterraneo, sia quelle degli eruditi locali, che spesso, sulla scia degli autori classici, forniscono notizie sulla prosecuzione della pesca in epoche più recenti; ma soprattutto lo attesta la continuità di quest'attività produttiva rimasta viva in questo territorio, anche nelle età successive, quasi senza alcuna cesura cronologica.